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L’ultima frontiera dell’ipocrisia linguistica: i “differentemente abili”- di Alessandro Pino

20 Ott

 Più che rendere politicamente corretto il linguaggio si dovrebbe favorire concretamente chi combatte la battaglia quotidiana di una vita difficile Sono ormai decenni che la lingua italiana (ma non solo) è tenuta in ostaggio dal “politicamente corretto”, la tendenza a eliminare espressioni e parole ritenute anche solo potenzialmente offensive verso alcune categorie, specialmente persone colpite da menomazioni e invalidità. Il processo di depurazione era iniziato coniando nuovi termini per definire coloro che quotidianamente dovevano fare i conti con problemi tanto pesanti quanto variati: fu così che ciechi, paralitici, sordi diventarono magicamente non vedenti, non udenti o audiolesi, artolesi. Questo pur continuando, chissà come mai, a non vedere, non sentire, non camminare. Stessa sorte toccò a coloro che, affetti da una particolare malattia genetica, erano stati definiti per anni “mongoloidi”: furono trasformati in “Down”, dal nome del medico inglese che per primo descrisse la patologia in questione. Peccato però che fosse stato lui stesso a usare nei suoi lavori la parola ritenuta offensiva verso quelle persone. Volendo poi raggruppare in un’unica espressione tutte queste condizioni di innegabile difficoltà si iniziò a dire e scrivere “andicappati”. Man mano che ci si accorgeva che nell’uso comune il termine veniva adoperato come insulto verso chi fosse poco portato in qualche attività, si diffuse l’uso di “portatore di handicap”, che suonava involontariamente comico per l’accostamento di persone spesso assolutamente non in grado di portare alcunché, all’immagine degli sherpa sull’Himalaya. Fu così che nel linguaggio apparvero i “disabili”, naturalmente continuando gli interessati a vivere tra difficoltà di ogni tipo. E ci si sarebbe potuti fermare qui, aiutandoli nel contempo sulla sostanza più che sulla forma: a nessuno è mai venuto in mente di insultare il prossimo dicendo «sei proprio un disabile». Manco per sogno: i disabili diventarono quasi subito (significando il prefisso “dis” la negazione di qualcosa, non sia mai)“diversamente abili” e recentissimamente, toccando l’abisso dell’ipocrisia e della demenza, “differentemente abili”, forse perché evocare qualche diversità suonava vagamente discriminante alle orecchie benpensanti dei progressisti. Il dubbio, a questo punto legittimo, è che chiunque si muova su una sedia a rotelle (pardon, carrozzina o “deambulatore”) o non possa vedere il mondo intorno a sé, preferirebbe essere favorito concretamente e non con questi contorcimenti linguistici buoni solo a indorare l’amarissima pillola di una vita passata a lottare da una parte con un corpo o una mente che vanno per conto loro e dall’altra con mezzi pubblici inaccessibili o con l’inciviltà trogloditica di chi magari dice “differentemente abili” e poi parcheggia la macchina davanti lo scivolo per farli scendere dal marciapiede. Alessandro Pino