(pubblicato su http://www.di-roma.com)
“In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre Cassius Clay. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: “Ma tu sei bianco”. Sì, ma sono nero dentro.” (cit. Pietro Mennea )
E’ scomparso questa mattina a Roma, cogliendo tutti di sorpresa dopo una breve e spietata malattia Pietro Paolo Mennea, forse l’atleta italiano più famoso di tutti i tempi.
Nato a Barletta il 28 giugno del 1952, figlio di un sarto e una casalinga, studia ragioneria e corre, corre e studia, sempre con il massimo impegno.
Oltre agli innumerevoli allori si laurea ben quattro volte, in scienze politiche, giurisprudenza, scienze dell’educazione motoria e lettere. Si iscrive all’albo degli avvocati di Roma, dove impianta uno studio legale in via Silla. Fino a pochi mesi fa era facile incontrarlo per i corridoi del Tribunale di viale Giulio Cesare, un avvocato tra gli altri, magari solo un po’ più taciturno. Curatore fallimentare e professore universitario a contratto presso l’Università di Chieti e Teramo, Europarlamentare per una legislatura, metodico com’è trova anche il tempo di sposarsi e scrivere una ventina di libri.
La sua carriera sportiva, costruita con la maniacale cura che lo porterà ad allenarsi 365 giorni all’anno, non ha bisogno di presentazioni ad effetto: quando diviene olimpionico a Mosca nel 1980, era già detentore da un anno del primato mondiale sui 200 piani conquistato alle Universiadi di Città del Messico con il tempo di 19”72, record rimasto imbattuto per diciassette anni – Michael Johnson lo spodestò ai trial statunitensi per le olimpiadi del 1996 – e tutt’ora primato europeo.
Un altro record che ancora gli appartiene, stabilito il 22 marzo 1982, è quello dei 150 metri piani, con il tempo di 14″8 sulla pista dello stadio Comunale di Cassino. Infatti il tempo di 14”35 fatto registrare nel 2009 da Usain Bolt a Manchester non è stato omologato perché stabilito su pista rettilinea.
Nel corso della sua carriera agonistica si è ritirato più volte, in periodi nei quali sembrava non potersi più esprimere ai livelli a cui era abituato: una prima volta nel 1981, poi tornò per partecipare alla prima edizione dei mondiali di atletica ad Helsinki e vinse un bronzo e un argento. Subito dopo aver partecipato a Los Angeles 1984 diede nuovamente l’addio alle gare. Ma il richiamo della quinta olimpiade lo fece tornare e a Seul 1988 fu portabandiera, anche se questa gioia fu appannata dalle polemiche mosse da chi, nel comitato olimpico, riteneva, ironia della sorte, che non avesse i titoli per un simile onore. Si qualificò soltanto per le prime batterie. Aveva trentasei anni è vero, ma i giochi di Seoul furono ricordati per la positività al doping di numerosi atleti, compreso Ben Johnson, il re della velocità del momento.
Nonostante l’atletica gli avesse portato le massime onorificenze della Repubblica, non vi fu posto per lui nello sport italiano, dopo aver smesso l’attività agonistica. Troppo schivo, solitario, un carattere intransigente impossibilitato al compromesso e con l’irritante attività di crociato contro la chimica nello sport. Praticamente ignorato dal Coni, nel marzo del 2012 a Londra, in occasione dei giochi olimpici, dedicano alla sua straordinaria carriera una stazione della metropolitana.
Cordoglio è stato espresso dagli sportivi di ogni parte del mondo, increduli, come tutti, per la morte di un uomo ancora giovane che da vivo era già leggenda. Il neo presidente del Coni, Giovanni Malagò, saputa la notizia è rientrato immediatamente a Roma interrompendo un viaggio di lavoro. Ha disposto che la camera ardente venga allestita al Coni.
Luciana Miocchi