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Un giorno d’estate all’autogrill – racconto di Alessandro Pino

21 Giu

(pubblicato su europagiovani.it)

Felice azionò la freccia ed entrò nell’area di servizio sull’autostrada per riempire il serbatoio della macchina ormai vuoto e svuotare la sua vescica, ormai piena. Era una giornata di esodo agostano, c’erano parecchi veicoli in coda alle colonnine del carburante e lui veniva dopo due motociclisti sigillati dentro scafandri ai quali mancavano solo le bombole. A uno dei due centauri squillò il cellulare e Felice si aspettava che quello rispondesse «Houston, abbiamo un problema». Arrivò il suo turno di rifornirsi e mentre il benzinaio armeggiava con la pompa, Felice ne approfittò per un salto al bagno. In quel momento una Lamborghini decappottabile, condotta da un figuro a torso nudo, urtò in retromarcia una signora che stava attraversando il piazzale. La malcapitata rotolò in terra esibendosi in alcuni pregevoli carpiati che nemmeno la Cagnotto dal trampolino. La povera donna terminò il suo volo in posizione seduta, sotto shock; un camperista tedesco, sceso da una specie di baracca su ruote probabile residuato dell’Afrika Korps di Rommell, le allungò una moneta da un euro scambiandola per una funambola di strada. Vedendo che era accorso un volontario del 118, Felice non ritenne di doversi fermare a darle assistenza e proseguì per i bagni. PINOautogrillDopo aver espletato con suo grande sollievo quella pratica, uscì dai servizi incrociando una matrona che, discesa da un caravan grande quanto un trilocale, reggeva a mò di trofeo una boccia con un pesce rosso bisognoso di un cambio d’acqua. Tornando alla macchina vide che la signora investita poco prima, nonostante zoppicasse vistosamente, affermava di stare benissimo mentre cercava di liberarsi dalla morsa del volontario del 118, cui non pareva vero di poterla massacrare con la storia della propria vita disgraziata e del perchè il suo matrimonio fosse naufragato. A Felice il motivo di quel divorzio apparve subito chiarissimo pur non  avendo mai visto prima quel logorroico rossocrociato. Pagò il benzinaio dando un commosso addio a un biglietto da cinquanta, trattenendosi dall’inviargli un paio di bacetti di commiato, non rispose nemmeno a un sedicente inglese che con accento di Mondragone voleva cambiare delle sterline autentiche come gli auguri tra vicini a Natale e risalì in auto. Girò la chiavetta di accensione ma non si udì alcun suono. Era una vettura molto silenziosa, è vero, ma adesso lo era anche troppo. Fece altri tre o quattro tentativi, ma il coupè svedese che lui aveva scelto per la fama di affidabilità (accollandosi alcuni anni di rate per assicurarsene gli efficienti servigi) non ne voleva sapere di mettersi in moto. I guidatori delle vetture che seguivano, targate Milano ma dai cui altoparlanti stranamente provenivano i ragli di squallidi neomelodici, fecero capire con discrezione (avvitando infatti il silenziatore alle pistole) che non intendevano attendere oltre. Era il caso che lui si togliesse di torno. Felice accolse immediatamente il cortese invito e scese per spingere la non leggera vettura, aiutato da un paio di nerboruti bikers selvaggi che sui gilet in pelle avevano cucite le toppe di un motoclub di Abbiategrasso. Ringraziò i due e con uno stato d’animo che non faceva onore al suo nome chiamò l’assistenza stradale dell’assicurazione; gli rispose dal call center una tale Jessica o Samantha o Deborah alla quale riferì l’accaduto, fornendo precise indicazioni su dove si trovava e si rassegnò ad attendere l’arrivo del carro attrezzi. Il sole picchiava peggio del Tyson dei tempi d’oro e l’autogrill climatizzato gli apparve come un’oasi nel deserto. Vi si diresse mugugnando antiche maledizioni abruzzesi alla volta di chi gli aveva venduto quella baracca, prodigio di tecnica scandinava. Davanti l’ingresso del punto ristoro trovò un capannello di gente. Si aspettava il solito banchetto di truffatori delle tre carte, ma non ve n’era l’ombra: tutte quelle persone, appoggiate a un grosso portarifiuti, si affannavano a controllare i biglietti del “gratta e vinci”, perdendo puntualmente contro quell’invisibile biscazziere che era diventato lo Stato. Felice lasciò al loro destino quei forsennati dello sfregamento ed entrò nell’autogrill. Su uno scaffale alcuni orribili pupazzi elettronici, azionati da qualche sensore, ghignarono sinistramente al suo passaggio. Gli parve che ce l’avessero proprio con lui e proseguì infastidito. Il locale era una bolgia dantesca, il bancone preso d’assalto da orde di gozzovigliatori che brandendo scontrini da infarto arraffavano focacce e panini risalenti probabilmente al Neolitico preceramico ed erano disposti a pagare un caffè freddo come a Porto Cervo o Cortina PINOautogrill2 d’Ampezzo. Proseguendo lungo le corsie del negozio diede un’occhiata alla merce in vendita, sulla quale si avventavano selvaggiamente i tapini caduti come lui in quella trappola; Felice non si capacitava di come quegli sconsiderati facessero man bassa di ciarpame che mai in città si sarebbero sognati di acquistare e arrivò a pensare che dai condizionatori venisse nebulizzata qualche sostanza che induceva allo shopping compulsivo. Lui stesso si sorprese a osservare interessato dei dozzinali salumi, esposti su un bancone fintamente rustico e il cui prezzo era tale che il peso era espresso in carati anziché in etti. Decise di uscire per non cadere anche lui vittima del misterioso morbo, preferendo affrontare l’afa, sacrificandosi, con grave sprezzo del pericolo, al posto del  portafogli già arido di suo. Si fece coraggio e aprì la porta a vetri dell’autogrill, lanciando un ultimo sguardo di commiserazione a un tale che indossando mocassini in cuoio marocchino sotto un atroce spezzato ton sur ton blu in due materiali diversi attendeva di pagare in cassa un’enciclopedia medica in ventiquattro volumi più appendici. Un vero affarone. Ritornò alla vettura in panne ma non osò entrarvi per la temperatura da crematorio che aveva raggiunto l’abitacolo, rifugiandosi invece all’ombra di una tettoia sotto la quale erano seduti alcuni camionisti incattiviti, allo stato brado. Felice ascoltava distrattamente i loro discorsi, dei quali riusciva a capire solo qualche parola, nonostante avesse fatto il militare assieme a calabresi, veneti e napoletani, di quello che era un dialetto autostradale, non riconducibile ad alcuna zona in particolare. Abituati a rapportarsi con clienti e colleghi delle più svariate località italiane ed estere, parlavano ormai tutti gli idiomi del mondo e nessuno nello stesso tempo. Guardò l’orologio: erano trascorse quasi due ore dalla richiesta di assistenza. Finalmente avvistò il camioncino del soccorso stradale convenzionato e gli andò incontro sbracciandosi come se avesse rivisto un vecchio amico. Indicando al conducente quale fosse la sua vettura, si accorse con desolazione che la stessa poggiava tristemente su quattro cavalletti: gomme e cerchi erano stati asportati da mani sapienti quanto rapide. «Ci hanno fregato le ruote?»chiese un anziano inserviente appoggiandosi a una ramazza. Felice annuì con la testa, ammutolito. «Eh, lo fanno, lo fanno. Lo fanno» replicò il vecchio…

 

Alessandro Pino