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CELEBRAZIONI – racconto di Alessandro Pino

28 Giu

Nei mesi precedenti il suo cinquantesimo compleanno la sua testa era stata occupata da tutt’altre faccende che pensare a come eventualmente festeggiarlo: in circa un anno e mezzo, macinando esami su esami in tempi da record e scrivendo la tesi in modo rocambolesco, si era preso una seconda laurea che aveva sperato invano gli servisse per un miglioramento lavorativo. Per scaramanzia oltre che per il suo solito senso di understatement aveva ritenuto opportuno far passare sotto silenzio la circostanza della discussione della tesi, a fronte degli sguaiati festeggiamenti altrui; preferì tenere un basso profilo in vista di un tentativo di avanzamento professionale cui era finalizzato il nuovo titolo di studio ma che invece poi non ci fu. Tra l’altro il voto di laurea gli parve troppo basso facendolo masticare veleno appena avvenuta la proclamazione, quando fino a un istante prima aveva sempre affermato quanto poco gliene importasse. Le foto scattate a sua insaputa quel giorno e che vide solo in seguito, mostravano infatti la faccia scura e contorta dal livore di chi ancora una volta, una volta di troppo, si rende conto di essere stato stangato nei denti.

Di fondo c’era comunque la consapevolezza che in entrambe le occasioni, laurea o compleanno, stante il suo quadro esistenziale c’era ben poco da celebrare e comunque si rendeva benissimo conto della ridicolaggine di siffatte manifestazioni di forzato giubilo, a meno di non chiamarsi Luigi XIV o di essere un boss mafioso, con i fuochi artificiali sparati in cielo e i sudditi e i sottoposti costretti alle celebrazioni del caso. Diversamente, il risultato gli appariva a dir poco ridicolo e velleitario se non proprio squallido e deprimente.

Ancora disturbante era poi il ricordo di dieci anni prima, quando per la sua solita acquiescenza aveva dovuto soffiare una tristissima candelina su un muffin dalla consistenza cementizia e dal sapore polistirenico preparatogli dalla sorella Lucilla con tanto di foto piazzata via social tipo gogna mediatica. Tra l’altro il quarantesimo era caduto in un periodo se possibile ancora più disastroso in cui aveva dovuto subíre un licenziamento infame che lo aveva fiaccato nello spirito e nel fisico, altrimenti avrebbe avuto la forza e la dignità di ribellarsi a quello che comunque gli parve un ignobile supplizio, la beffa che si aggiungeva al danno.

Altrettanto disagevole per il senso di ridicolo involontario che gli suscitavano era il rammentare pseudo feste mondane e relativi tagli di tortine tiepide con stucchevoli spegnimenti di candele cui fu di fatto costretto a prendere parte; parimenti angoscianti erano i remoti ma ancora brucianti ricordi di brindisi finiti a spumanti in faccia o di rovinose gastroenteriti emorragiche casualmente sopravvenute dopo l’ingestione di torte acquistate in quelle che pure avevano fama di essere rinomate pasticcerie.


Aveva dunque accantonato lungamente la questione su come trascorrere la giornata del suo cinquantesimo compleanno ma nel frattempo i mesi trascorsero comunque diventando settimane, poi giorni e infine ore: la distanza dal traguardo del mezzo secolo diminuiva in modo inversamente proporzionale al crescere del suo malumore. Il disgusto di compiere cinquanta anni era dovuto non dal dato anagrafico in sé (perché si rendeva benissimo conto che in tanti non ci erano arrivati e invece lo avrebbero voluto) quanto dalla lucida e disastrosa consapevolezza di esserci giunto senza avere avuto la possibilità di combinare alcunché di decente e appagante.


Rendendosi conto di non poter sottrarsi a quel passaggio a meno di ricorrere a mezzi estremi, tanto esiziali quanto estranei a quella che riteneva essere la sua cultura, intesa antropologicamente come visione del mondo, si divertí a preparare alcune parole di circostanza che idealmente avrebbe immaginato di rivolgere alla popolazione sintonizzata a reti unificate, sentendosi un po’ il Presidente della Repubblica la sera del 31 dicembre, ma che nel concreto furono ascoltate da un interessatissimo pubblico composto dal cane e dal gatto di casa. Si mostrarono uditori ancora meno attenti i pesci rossi dell’acquario e il pettirosso che anni prima aveva raccolto su un marciapiede infuocato dopo essere caduto dal nido. Anche i girasoli nelle fioriere sul terrazzino gli sembrarono voltarsi distratti: dopotutto si era a un tramonto di inizio estate.

La scena surreale che avvenne dunque qualche ora prima della mezzanotte del compleanno era quella di lui che usando come podio il bancone nell’angolo cottura parlava al muro – eccezion fatta per gli animaletti domestici- leggendo sul telefono gli appunti in un profluvio di livore e recriminazioni, sottolineando con teatrale gestualità da oratore quelli che per lui erano i punti più salienti della astiosa filippica.


Mentre faceva il rancoroso bilancio dei suoi primi cinquant’anni vomitó veleno sui vivi e sui morti che lo avevano contornato, da lui ritenuti una pletora di ottusi colpevolizzanti depressi e presuntuosi, rei di averlo mandato allo sbaraglio senza appoggi in quel simpatico paese in mano agli amici degli amici, incistato da un familismo arrogante e dialettofono, basato sul bungabunga e sul luridume, sulla polvere bianca, sui ricatti e sulle botte di culo e le cui frasi gloriose (tra le tante “Kalos Kai agatos”, “Legum servi sumus ut liberi esse possimus”, “Studia che poi te lo ritrovi”. Sí, nel culo, aveva aggiunto lui col senno di poi) con annesse puttanate filoborboniche avevano scandito come pietre miliari fatte di sterco la sua disastrosa Via Crucis.

E nonostante tutto ciò, in un contesto nel quale chi più faceva schifo e più raccoglieva ogni onore e gloria e in cui senza un sostegno valido, un appoggio reale, si usciva sconfitti a priori da qualunque tipo di classifica e ancor prima di selezione mentre chi poteva disporne primeggiava anche in difetto di quelle caratteristiche che sarebbero state necessarie, lui nei decenni aveva mostrato di avere la schiena dritta e tenuto duro nelle circostanze avverse in cui altri probabilmente avrebbero mollato con gesti estremi o si sarebbero afflosciati nel piagnisteo.

La neve, il solleone, il rischio, la fatica, i disagi, gli orari folli, le condizioni igieniche disastrose e ambientali ostili, le vessazioni umilianti e le angherie mobbizzanti di varia natura subíte da personaggi raccapriccianti e grotteschi, le porte sbarrate anzi sbattute in faccia, avevano avuto il risultato che ogni anno lo aveva logorato male valendo per dieci e dunque lui ora se ne sentiva addosso non cinquanta ma cinquecento. Si sentiva accomunato a un coscritto della Prima Guerra, sopravvissuto a stento e rimasto mutilato nell’animo.

Ricordò come i suoi sforzi fossero stati tanto continui quanto resi vani da un costante sabotaggio, boicottaggio, svalutazione e denigrazione di fatto ai suoi danni. Era stato tutto un annaspare affannato e stralunato senza poter dare seguito alcuno alle aspirazioni che man mano si erano succedute, tutte puntualmente frustrate a fronte dei successi e delle agevolazioni altrui. E così gli anni della sua gioventù, quelli che avrebbero dovuto essere biologicamente, anagraficamente, socialmente i più proficui e appaganti, erano finiti bruciati in un nulla, senza neanche la soddisfazione di chi li ha dissipati in dissolutezze ed eccessi da bohemien alcolizzato (lui era pure astemio!) o da rockettaro lisergico (nemmeno una fottuta canna aveva mai fumato!). Nessuno gli avrebbe restituito quella vita scippata di cetriolo in cetriolo senza godersela e tale consapevolezza lasciava l’amaro in bocca.


Concluse finalmente la sua arringa, mentre il gatto miagolava chiedendone una con una Erre in meno, annunciando la decisione, germogliata settimane prima ma maturata rapidamente nelle ore precedenti, di trascorrere le successive ventiquattro, coincidenti con quella che 50 anni prima era stata la sua data di nascita, osservando una giornata di digiuno e preghiera, una specie di Ramadan personale in versione cattolica per una purificazione del corpo e dello spirito, cosa che sottolineó levando un dito indice in segno di solenne ammonizione. Non nascose a sé stesso di sentirsi in tal modo anche anticonformista e originale rispetto a ciò che gli appariva banale e scontato, compiacendosi per quello che riteneva il tratto distintivo di una accresciuta consapevolezza morale e civile. Giunse dunque la mezzanotte giusto qualche minuto dopo che ebbe terminato uno spuntino di incoraggiamento a sé stesso. Bevve mezzo litro di tè freddo al limone senza zucchero (cui fino alla mezzanotte successiva ne sarebbero seguiti parecchi altri, avendo stabilito di concedersi tale unica bevanda per garantire l’idratazione e placare la fame), recitò alcune preghiere in latino che aveva trascritte sullo smartphone e che a parer suo in quella lingua avrebbero reso più solenne la sua prova di ascesi e se ne andò a dormire tutt’altro che sereno.


Il mattino dopo avrebbe sperato di trascorrere alcune ore lavorando in mezzo alla caciaresca gioventù del centro estivo che doveva iniziare proprio quel giorno: sentiva che ciò in parte lo avrebbe consolato dello spreco di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi anni migliori. Ricevette invece una telefonata con cui tutto veniva rimandato alla settimana successiva per motivi organizzativi: anche quella magra soddisfazione gli veniva negata facendo iniziare dunque quel giorno sotto una cappa infausta e negativa.

Sbuffando, si piazzò in mutande nel balcone sulla sdraio a cannelloni di plastica verde anni Settanta e all’ombra delle tende da sole verdi si mise a leggere un romanzo di Forsyth che aveva trovato giorni prima nel box dello scambio libri al mercato. Ogni tanto controllava i social su cui non giunsero auguri non solo per la sua irrilevanza sociale ma anche perché aveva da anni tolto la data di nascita dai suoi dati personali visibili agli utenti. Giusto ricevette qualche messaggio su WhatsApp e un paio di telefonate da alcuni tra quelli che sapevano la data cui rispose sforzandosi di essere cordiale e cortese, sospirando esausto ogni volta che dopo i ringraziamenti e i saluti posava di nuovo il cellulare sul tavolino. Inclinava la testa di tanto in tanto quanto bastava a guardare meccanicamente il quadrante del vecchio, grosso Longines da sub senza in realtà leggere davvero l’ora, andava al bagno a rinfrescarsi il viso, beveva un altro po’ di tè freddo, rivolgeva qualche parola agli animali di casa e pure ai fiori sul terrazzino. Non gli andava di uscire, né di accendere la radio sulla frequenza che trasmetteva sola musica classica e che pure di solito ascoltava in esclusiva, collocando la totalità delle emittenti generaliste di parole e musica pop in una sua graduatoria che andava dal fastidioso al molesto fino all’intollerabile. La televisione in pratica non la accendeva mai, nel mobile che la sorreggeva erano ancora sigillati nel cellophane decine di Dvd che aveva comprato negli anni ripromettendosi di guardarli quando ne avrebbe avuto tempo e voglia: vale a dire mai. Anche quelli del corso di francese erano rimasti intonsi. Il giorno si trascinò così, scialbamente, con modalità da ameba, in attesa di chissà quale ignoto evento. Un deserto dei tartari trasposto in periferia, in cui non successe nulla. A un certo punto pensó di fare un salto nella piscina del centro sportivo cui mesi prima si era iscritto pagando un anno di retta anticipata e nel quale non aveva praticamente messo mai piede. Disse tra sé e sé che questa era l’occasione più propizia per cominciare, prese il borsone acquistato appositamente e si mise a cercare il costume da bagno, la cuffia, le ciabatte e il resto. Era già sulla soglia di casa quando le chiavi dell’Alfa 75 che aveva in mano gli sembrarono pesantissime, tipo il martello di Thor. Gli arrivò addosso un tracollo di stanchezza, guardò il borsone e lo lasciò sul pavimento, spogliandosi di nuovo e tornandosene sul balcone. Ironicamente, gli giunsero alle orecchie le grida festose di qualche compleanno di bambini che si svolgeva in un giardino poco distante e fu lieto di ascoltare il tantiauguriate rivolto al piccolo festeggiato, tenendosene idealmente un pezzetto anche per sé. Tornò sulla sdraio e si mise a guardare su Instagram motociclette e orologi che non avrebbe mai comprato e riprese a leggere il romanzo di Forsyth.

Finalmente arrivò la mezzanotte che dava inizio al giorno successivo: la sua festa, quella che non c’era mai stata, era finita (“Ma se fossi a New York sarebbe ancora il mio compleanno”, disse a sé stesso in preda all’ossessione di aver sprecato chissà quale occasione e forse aveva sempre saputo che sarebbe andata così: era inevitabile). Dopo quelle ventiquattro ore in cui non aveva concluso nulla se non praticare il suo fottutissimo ascetico digiuno e rivolgere ferventi preghiere, si sentì ridicolo, triste e arrabbiato; mugugnando maledizioni all’universo mondo si affacciò dal balcone con le mani larghe sulla ringhiera, prese aria ed esplose in un pauroso bestemmione urbi et orbi, a suggello della vuota insensatezza di quella giornata trascorsa non si sa bene come ma soprattutto di una vita che percepiva con lucida consapevolezza essergli stata fatta buttare nel cesso senza nemmeno essersi con(cesso, di nuovo) chissà quali fantasmagorici eccessi e sfrenate dissolutezze. Nessuno fece caso al suo breve scoppio di rabbia: in quel residence che ancora sui volantini di qualche cialtronesca agenzia immobiliare veniva definito con malcelata ironia “signorile”, tutti erano abituati a ben altro. Rientrò dentro sogghignando agro e si preparó una tazza di latte e biscotti, cercando di convincersi che aveva davvero fame. “Mabaccagai”*, mormorò girando il cucchiaino.

*”Ma vai a cagare” in cagliaritano

Alessandro Pino

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